Il nobile smemorato

Era un’afosa giornata di maggio, più precisamente il 12, quella dedicata alla consueta visita annuale al vate della zona da parte del nobile Aubry Dubois. Quel meriggio – orario prefissato per l’appuntamento – il nobile Dubois era più quieto del solito, tranquillizzato sugli esiti della visita dal suo miglior compagno, il duca Mars de Boité; il quale non molto tempo prima procurò al nostro cheto nobile un’occasione lavorativa ghiotta e illuminante: il nobile Dubois, dopo l’ultima disastrosa visita profetica, cadde in rovina per mano di un’abbietta bancarotta, causata da cagioni tutt’ora ignote ma comunque preconizzate dall’abile vate della zona; così, dopo qualche mese passato a tapinarsi, il nobile venne risollevato dal solenne aiuto del duca de Boité, che spacciò a Dubois un impiego come reggente di un prestigioso sito archeologico limitrofo. Dunque, il nostro nobile, bello della sua ritrovata fortuna e del superamento di tante ardue peripezie, era convinto – e pure persuaso – del buon risultato dell’odierna chiaroveggenza. Entrato nell’illustre studio del rinomato veggente, Dubois si accinse ad interloquire con egli, ansioso di confermare le sue impressioni. Il veggente però non confermo proprio un bel nulla! Non era questo ciò per cui era pagato! Chi vorrebbe pagare un veggente se il futuro si lasciasse intravedere dopo appena quattro speculazioni in croce? No, non funziona così, ogni pensiero sul futuro vien sempre disatteso se esso non proviene da una mente illuminata, connessa liberamente al flusso temporale, avezza ai consigli di Dio. Dubois uscì dalla stanza impietrito, sul ciglio di una geremiade, trattenuta solo per rispetto dei presenti: il destino che gli era stato predetto era più truculento di un assassino, più putrido dell’annosa Bis-bis-nonna Romary Dennet, più tetro di un bosco infestato durante una fragorosa procella. Il nobile, preso dallo scoramento, non riusciva a ingollare il boccone amaro e dolente e già pensava di uccidersi se non fosse per una reminiscenza fulgida e salvifica, che dopo esser stata dimenticata inesorabilmente per via dei numerosi pensieri vittimistici e gemebondi, riaffiorava dall’oblio della memoria: il veggente preconizzò al nostro nobile sfigato una via di fuga, un rito da compiere per eludere l’imminente ginepraio crudele: <<C’è però un che da fare per sfuggire alle grinfie del tuo destino sanguinoso, per evitare gli artigli appuntiti della tua sorte iniqua. Tu caro mio, dovrai disseppellire da te, ed entro oggi, il rimedio ai tuoi mali: dovrai riesumare una vetusta scatoletta ornata con rifiniture appartenenti al retaggio greco e azzimata da un disegno in oro posto sul coperchio della scatola. Il disegno dai lineamenti sbiaditi raffigura una grossa torre, molto simile al distrutto Faro di Alessandria; per l’ubicazione di tale cimelio, invece, tutto ciò che posso dirti è che si trova in un sito archeologico qui vicino>>. Dubois galvanizzato da questo ricordo salvifico, tramutò il clima sofferente ed algido della sala in uno ardente e colmo di gaudio, che vedeva il suo apice nel viso gongolante del nobile stesso. Ovviamente egli sapeva che il suo destino non avrebbe potuto far altro che nascondere il rimedio per i suoi mali nel suo sito archeologico – il destino degli altri è la fiera del “suo”. Guardò l’orario e poi partì velocemente alla volta del sito archeologico, senza neanche avvisare il suo compagno duca, che alla vista di quella corsa perentoria divenne assai perplesso. L’arrivo a destinazione avvenne in tempi record; in quella giornata, comunque, non era prevista nessuna visita data la chiusura momentanea del sito, quindi Dubois aveva piena libertà. Dopo due ore di estenuanti ricerche, il nobile aveva già scandagliato e messo a soqquadro praticamente tutto il sito, ad eccezione di una stanza, la più recondita: dietro ad una statua marmorea della collezione di Delfi, si celava un angusto passaggio dall’aspetto sciagurato che conduceva ad un penetrale ancor più terrorizzante, a tratti orrorifico: le pareti che aprivano la stanza erano esornate da tibie e radio unite, che formavano delle decorazione astratte assai suggestive, se non fosse per il loro carattere spaventevole predominante; le pareti ai lati, invece, si lasciavano scevre di ossa – grazie a dio – e conservavano solo alcuni affreschi di vita quotidiana – in cui però i protagonisti erano dei simpatici non-morti; la parete frontale, però, non si tratteneva certo sul lato raccapricciante, infatti era adornata da una serie di teschi e mani appese al muro che evidenziavano una scatoletta sul pavimento con una torre raffigurata sul fronte. Quella era l’immagine che Dubois stava con tanto fremito cercando, così si fece forza e si appropinquò all’enorme catasta di teschi, poi raccolse la scatola; dopodiché sgusciò con celerità dal tetro penetrale – senza porsi domande inquisitorie sui gusti dell’arredatore – sino a raggiungere l’uscita del sito. Ritornato a casa, ed appartatosi vicino ad un chiaro di luna – ormai si era fatto piuttosto tardi – entrante dalla grande finestra del suo studio, si decise ad aprire quella fausta scatola con la gioia propria d’un bambino: l’interno della scatola nascondeva un polveroso foglio di carta arrotolato – certo che la polvere per entrare persino nelle scatole dev’essere proprio in gamba -, aperto subitaneamente da Dubois, che lesse:

<<Cara Mamma, ti scrivo oggi per augurarti ogni bene che possa esser in dono ad un mortale, per regalarti la mia apprensione e i miei pensieri; ti scrivo per poter continuare a sperare su di un soggetto tanto dignitoso e meritevole. Cara Mamma, oggi è il tuo giorno, oggi è il tuo rito, ma io ti vedo in ogni mia vita.

Jean Mitreres 13/05/1432>>.

Era chiaro, non appena Dubois lesse la data si rese conto che quello segnato era il giorno di domani – senza contare l’anno -! Aveva scordato il regalo per la propria madre! In un attimo la situazione divenne perspicua e capì che la cagione di quell’infausto destino era sua madre. Tralasciando l’inquietudine della scoperta, il da farsi era già deciso: si doveva provvedere ad un regalo. Il tempo era ormai proibitivo però: in strada non c’era più nessun negozio aperto. Dunque, ciò che ci voleva era un bel regalo amatoriale, e tutto ciò che il nobile sapeva fare era scrivere! Che si narri quindi, anzi scrivi, una storia; ma quale storia? Beh… se non altro quel giorno si prestava ad una più che dignitosa trasposizione letterale.

Fidatevi

Ci si fida nella vita, molte volte anche. Ecco, la fiducia è un atteggiamento importante della figura umana, uno che erra esclusivamente con l’uomo, che induce il passo a calar di gravità all’insegna di un crepuscolo rasserenatore. Però, la fiducia va ponderata, quantomeno se non si vuol essere fessi, raggirati in continuazione per la troppa fiducia elargita. Essa deve essere pretenziosa, va concessa solo dopo un’oculata analisi, dopo che si siano acclarati tutti gli aspetti più rilevanti di una persona – dopo che, tale persona, sia in confidenza come lo siam col palmo della nostra mano. Questa è una fiducia retta, sana, prestante e presumibilmente proficua. Tuttavia, l’oculatezza non fa che da stoviglia della fiducia – la solerzia si dilegua non appena la fiducia trova casa, lasciando il sito al suo opposto. Di chi ci si fida già non si compie analisi o ricerca, proprio perché ci si fida! Dunque, chi si affida vota il partito dell’indifferenza, alloggia nell’hotel della deresponsabilizzazione, imbraccia il fucile del torpore. La fiducia infatti ci sottrae a odiosi compiti, sfoltisce le nostre attività antipatiche ed è alla base della comunità.

Un ricavo nel terreno

Una leggere folata di vento condusse con leggiadria un’aitante foglia, orfana da poco meno di un minuto del suo svettante albero. Il valzer diretto dal vento si protrasse per un buon quarto d’ora, e la strada passata sotto le verdeggianti nervature della foglia si estese sin’oltre l’orizzonte – che anche se non dei più piani e spaziosi, manteneva pur sempre la sua dignità per quanto riguarda la portata dello sguardo. Il ballo s’interruppe – almeno quello svolto dalla foglia – quando la fronda fu ostacolata da un grosso ricavo nel terreno, simile ad una fossa, ma di sembianze scomposte, di certo non riservate ad un’uomo. La pareti della misteriosa fossa inibirono il movimento alla foglia, la quale si vide destinata a prostrarsi nel mezzo di quel ricavo coercitivo. Appostato più in alto di qualche metro, si trovava un vispo passerotto, che si accingeva a cinguettare a più non posso; la sua visuale, da lì su, mostrava in tutta la sua aberranza le reali dimensioni della strana fossa: i due estremi tra loro più lontani, si guardavano da buoni otto metri; mentre la profondità del ricavo si espandeva per forse 3 metri – concedendo sempre il beneficio del dubbio, dovuto alla tenue incertezza della prospettiva. Le forme tracciate nel terreno, invece, ad uno sguardo accorto, avevano una loro logica; quel che emergeva da questo disegno pareva essere di grande inquietudine: lo schema della fossa si estraniava sempre più dalla sua intuizione originale, e quel che sembrava essere una fossa si rivelò, invece, essere un’impronta. Una volta arguito ciò, con tempestività, si manifestò l’impronta ad essa gemella – chiave di volta per la nostra supposizione. Le dimensioni badiali dei due vestigi persino ad un uomo savio e posato avrebbero causato turbamenti e fisime esacerbate dal timore. Ivi giunse, dopo un po’ dalla nostra congettura, un contadino del posto, pungolato da un trambusto accusato qualche tempo prima. Arrivato di fronte a quelle trepide impronte, persino ad un’uomo attiguo al georgico come lui si gelò il sangue tanto dalla singolarità del fatto. Gli arrovellamenti in cerca di verità si prorogarono più del dovuto, a causa di quei tartagli titubanti provocati dalla maretta aleggiante. Il giovane contadino penso bene – o forse no, c’era il rischio di impelagarsi – di tuffarsi in quell’immenso ritrovo di possibili doglie, stremato dall’insensatezza della vicenda – ovviamente prima si procurò una scaletta, per premura del ritorno. Le subdole impronte viste da dentro obnubilavano ogni ricordo cheto, sennonché incoraggiavano il tremore e l’accortezza. Le ricerche oculate del buon’uomo si risolsero in un nulla di fatto, così, dopo il tempo opportuno, decise di abbandonare le prodezze solitarie e di precipitarsi a raccontare l’enigma a quanti più poteva, persino al più meritevole di fiele, giacché il male non si augura nemmeno al peggior nemico, perciò è meglio allertare chiunque. Diffusasi la notizia, ci fu un peregrinaggio in massa che coinvolse buoni tre quarti della gente informata: all’iniziale sconcerto diffusosi nei visitatori si susseguirono estatici vagheggiamenti; dunque, in poco tempo quel luogo terreno di iettatura e di terrore imperante, si fece fertile di speranze e desideri, nonché di poetiche elucubrazioni. Tutt’ora il mistero è irrisolto, ed è questo che induce la ressa.

Impollinare per accidente

Scoccò l’ora, e il tempo che sino ad allora s’era contratto, confacendosi quasi al passo di una lumaca, ritornò finalmente al suo corso abituale. Non si accompagnò alcun tintinnio festoso a tale giro d’orologio, eppure esso fu emblema di liberazione; si festeggia il futile in larga misura, tuttavia quando si affranca si possono udire solo i riverberi dei motti di Dioniso in festa. Il primo verso evocativo che fece recapito al liberato fu un rumore metallico, lenito dai binari su perfetta misura in cui si dirigeva il grosso portone ferroso – protagonista di molti dei desideri del liberato, ed ognuno di loro lo vedeva spalancato o fragile come un cartonato. Passo dopo passo, il tempo riacquisiva la sua tempestività, porgendo in tal modo un gabbo passato in sordina al liberato: la luce abbacinante del sole impediva ogni riflessione sulla beffardaggine del tempo, che nella sua frammentarietà si divertiva nel canzonare i propri visitatori. Lo spiazzale presentatosi dopo il valicamento, appariva scarno, disadorno e privo di ogni premura; se non altro lasciava il libero passo al liberato. Lo sfogo dei piedi fu pari solo a quello degli occhi, ed essi cinti tra loro dal cameratismo, esortarono alla meraviglia, allo stupore. Di cotanto interessamento, però, non si accingeva la mente; e da padrona sovrana si fece imperante, condizionando i suoi discepoli. Nel cammino dal portamento vano, a tratti ramingo, si palesò una necessità: lusingato dai ferventi raggi solari, si mostrava una candida orchidea, che al giudizio pareva meritevole di carezza – riporto che era talmente avvenente da aver attirato già numerosi passanti, per quanto quella negletta strada potesse ospitarne. Il liberato si precipitò verso di essa con fervore che da tempo era assopito, a voler quasi imitare il ritrovo delle forze dell’orso nella sua prima battuta di caccia dopo il letargo.  L’impazienza si protrasse per tutto il breve cammino verso il fiore, ma a meta raggiunta si licenziò, lasciando il posto a incantati vagheggiamenti. Il tatto si inebriò all’incontro con i canuti, nonché soffici, petali dell’orchidea; lo sguardo del liberato sospinto dal soave si appropinquò al labello dell’orchidea, e non si sa come l’impollinò. L’appagamento del concupiscibile pervase il liberato, che si alleggerì da un ulteriore carico, e beneficiò di immenso gaudio. Espletato il tutto – un tutto desueto; componimento dei più bislacchi, di quelli che per il canonico sono accompagnati da ignominia – si accinse a continuare la deambulazione, scevro finalmente dall’inquietudine che gli attanagliava la mente giusto un’attimo prima. Proseguì per la via sino alla fine dei suoi giorni, caratterizzato da uno spirito serafico e da una rivalsa fulgente.

Sul problema e la sua natura

La vita di ognuno si accompagna sovente con il generarsi di problemi, e ciò è inalterabile persino dalla più propizia delle venture; ma ciò che in sostanza pare essere il problema, di rado s’è risposto. E dunque, lo sveliamo in codesta sede: il problema è una particolare situazione in cui pernotta in potenza una scelta dannosa – tant’è che del danno compiuto non si parla come di problema, ammenochè esso non sia prodromo di un ulteriore danno che solo in potenza può definirsi, visto che ciò che è causa di qualcosa ne è per forza di cose anteriore; ergo, il secondo danno essendo conseguenza – dato che si prospetta nell’avvenire -, e quindi posteriore alla sua causa, è incontrovertibilmente definibile solo in potenza e come problema. Il problema, quindi, giace ad un’incrocio, ma è tendente verso la via più impervia e lugubre, tuttavia esso non è impedito a ritrattare il passo verso il sentiero floreale. Ed è proprio la condizione in potenza  che da adito al perseguimento di entrambe le vie, certo una delle due gode di un discreto vantaggio d’attrazione mai bramata, però la nostra tenacia è in massima forza maggiore a tale impulso attrattivo.

Va anche precisata la superiorità nociva che attecchisce la conseguenza dannosa del problema, il quale è dunque meno pernicioso della sua conseguenza insperata. Ma allora, la sempre più trascurata definizione di problema, nasconde in sé una formula magica per dirimerlo? È legittimo, al di là del desiderio, investigare su di una strategia infallibile atta a risolvere qualunque problema? Magari una strategia infallibile perlata dai continui sgocciolii provenienti da un’eccedenza di sagacia, sfogo di una mente brillante. Eppure, al cruccio va annoverata un’ulteriore vittoria, perché questa è pura fantasia, di quella che solo ai poliedrici spetta. Nessuna formula magica, ma d’altronde non può esserci formula magica che si incammina dall’universale per giungere al particolare: le definizioni anche se universali si applicano pure al particolare, d’altra sponda però sono le soluzioni, infatti loro si adottano solo al particolare, cibando il fuoco del desio che mai si estingue.

La morte

Non facciamo altro che baccagliare contro la morte, il nostro istinto ci guida affinché la nostra vita possa proseguire serenamente, affinché possa continuare ad affermasi, e allo scopo di impreziosirla, abbellirla; e da ciò che nasce la nostra tendenza a tesaurizzare la vita, e aborrire la morte. Eppure, la vita non sarebbe tale senza morte. Una vita scevra di morte, è nominabile solo esistenza, ma non è definibile e contemplabile nella sua interezza. Tutti i nostri sforzi, le nostre lacrime, i nostri sacrifici e, perché no, le nostre risate, si rendono ammirabili grazie alla morte: una vita caduta si consacra con il trapasso, esso ci delinea nella nostra interezza, e tutto ciò che è finito è contemplabile in assoluto. Così come una lapide ci segnala, anche la stessa morte lo fa, con molta più possanza però. La morte ci è utile perché concretizza tutta la nostra vita negli altri, e ci rende fulgidi dai piedi al capo.

Estetica: ThatPoppy

La ricerca del bello in un progetto cosi lene e tornito può apparire inutile, inconcludente, e forse a buon occhio, tuttavia in questo pervasivo gusto soave si “nascondono” opere esteticamente superbe che valgono il prezzo del biglietto. I caratteri principali che riusciamo a distinguere nell’opera sono tre: I personaggi o gli esseri senzienti – che di per sé sono sempre accompagnati da un lato razionale -, l’ambiente e le relazioni che sussistono tra personaggi ed ambiente. Ognuno degli elementi è contestualizzato nel paradigma del progetto, dunque dovremmo, con non so quanto sforzo, donare credibilità – quasi a rassomigliare un prodigo – ad ognuno dei previ elementi. Una volta fatto ciò potremmo proseguire nel discorso senza timore di cozzare con la logica dell’opera.

I personaggi che compongono l’opera, presi nella considerazione più lata, sono perfettamente concordanti con l’ambiente, e come un rupofobo (maniaco della pulizie) si esalta per il lindore, anche noi ci esaltiamo per l’armonico, da buoni esseri razionali. È il concordante che adempie a base d’appoggio dell’armonico, dunque la concordanza dei personaggi rapportati all’ambiente deve sorreggere un ché di armonico estremamente piacevole; essendo l’armonico un effetto della concordanza tra personaggi e tecnologia – l’ambiente in cui aleggiano è immerso nella consapevolezza tecnologica, dunque è la stessa tecnologia, almeno in parte -, anche ciò che cerchiamo deve in qualche modo esistere come effetto su di uno dei due termini, in quanto proprio armonico. Tuttavia, ciò che dobbiamo tenere in mente è anche la perfetta aderenza che cinge i due termini, che, dunque, si influenzano ugualmente “affliggendosi” dello stesso armonico. Dopo queste premesse pare evidente che il collegamento gradevole dei tue termini è la “purezza”. E ad una attenta vista  pare anche che il suddetto sembra rivestire completamente tutti i termini dell’equazione, convertendo quindi sia personaggi che ambiente e perfino le loro relazioni al puro, all’illibato. Sotto l’altare del puro si prostrano tutti questi termini, e la loro imperturbabile concordanza si manifesta ancora grazie alla loro coerenza.

Si può scovare in questa estetica un messaggio apologetico molto importante e, forse, contro tendente alle invalse interpretazioni del progetto: la purezza del comparto è dovuta alla tecnologia, che quindi secondo la logica dell’opera non esacerba la condizione umana tapinandola, bensì ne esalta l’estetica – almeno per ora, solo quella – e la attrae ad una condizione gaia, che per merito della tecnologia stessa, non ha alcun motivo per essere definita irresponsabile, o quasi. Oltre a ciò, l’unico elemento che cozza con l’ambiente intero è un solo personaggio, Charlotte precisamente. Ella – se così la si può definire – è un manichino miniato per dare l’immagine di un uomo – è donna in verità – attivo, infatti ha una propria acconciatura, in ogni occasione è sempre agghindata diversamente e così via. Charlotte sembra essere stata scottata dal clima tecnologico, difatti ne rappresenta solo l’artificiosità, è il suo aspetto grottesco ritrae la nostra letizia e con essa il nostro piacere; ma c’è qualcosa di più importante nel personaggio di Charlotte: essa oltre a interpretare il lato esecrabile della tecnologia, ci dà anche un prova preziosa; la sua presenza ci porta a teorizzare i personaggi del componimento come “essenzialmente vuoti”, ed è per questo che l’essenza della stessa Poppy si trova in superficie; infatti ella influenzata dalla tecnologia ha si acquisito un essenza – come tutti gli altri personaggi, perfino la pianta – ma ha anche constatato la “debolezza” della tecnologia, o meglio dell’influenza. Un essenza forte, nerboruta si foggia da una “voglia” intrinseca al soggetto in sé; la stabilità dell’essenza si forma se quest’ultima è desiderata di propria iniziativa, mentre la debolezza e l’incertezza si trovano nel condizionamento. Dunque, la tecnologia avendo influenzato – o forzato chissà – l’essenza dei personaggi, ha prodotto in loro un essenza imbelle, che comunque non ha nulla a che vedere con il valore della persona.

Introduzione: ThatPoppy

ThatPoppy è quella Poppy, la Poppy più visibile, e apparentemente la più invisibile. La sua visibilità si media sino alle nostre pupille grazie a Youtube, ed è da lì che si concretizza tutto il suo ambizioso progetto, uno tale da definirsi compiuto anche se indarno. L’ambiziosità di codesto proponimento si riversa in molteplici campi, e ne sovrasta le linee divisorie senza esserne alterato, senza scendere a compromessi: musica, doppiaggio, scenografia, cosmesi, videografia, sceneggiatura e indovinismo  sono tutti campi lambiti, anzi, occupati dal progetto “ThatPoppy”, e proprio quest’ultimo grazie alla sua austerità di linguaggio riesce ad unire e comprimere ognuno di questi argomenti sotto il proprio vessillo.

Il progetto è lampante nella sua unità e nel suo ambiente, gode dell’evidenza stilistica di un Caravaggio appeso al frigo di una qualunque famiglia. Tuttavia, al di là del contorno ciò che rimane più inscrutabile è proprio la bella Poppy, non che ne sia celata l’effigie, anzi essa è riproposta in ogni dove, ma ciò che manca, l’oggetto di tante premurose quanto egoistiche ricerche, è la sua essenza; tale elusività è dovuta ad un equivoco di base instillatoci dall’abitudine scientifica: così come la credibilità di una teoria scientifica è data dai suoi riscontri comprovati nei molteplici esperimenti, anche una teoria “umanistica” è per lo più fondata su di una serie di risultati identici reiterati. L’esperienza ci ha più volte illuso indicandoci l’essenza come viscerale, come fatto estatico, quando di profondo non ha nulla se non i pregiudizi.

La stessa effige di Poppy cova in sé la sua essenza, avviene in ella uno spostamento d’ubicazione la cui causa non è chiara: il colpevole è costituito dalla natura (orientamento dell’essenza innato e immutabile), o da un intromissione esterna? La prima possibilità mi appare assai improbabile, stiamo pur sempre parlando di una semplice ragazza, per quanto inusuale possa essere non mi sembra differisca chissà quanto da una mera studentessa, o da una cameriera magari, un’avvocatessa o chicchessia. Scartata la prima proposta le scelte si riducono all’osso, con buon augurio dell’indolenza; dunque pare che dobbiamo addossare la colpa ad un intervento esterno, cospiratore, che siano gli UFO? Beh, in effetti il personaggio di Poppy è a dir poco alienato, o forse no? Su questo tema ci ritorneremo un’altra volta, ma per il momento accantoniamolo con possanza, insieme agli alieni. Analizzando un semplice video di Poppy ci si accinge ad una conoscenza subitanea con l’artificio per eccellenza, la tecnologia. È dunque essa la pioniera di tale cambiamento? Parrebbe di si, non solo la perfetta aderenza e agiatezza di Poppy in corrispondenza con la tecnologia lo indicherebbero, ma anche, e soprattutto, i suoi riferimenti: ogni suo messaggio è afferente o indotto da un tema tecnologico, e questa presenza preponderante miscelata con il vezzo non può che mutare anche ciò che c’è di precipuo in un uomo.

La nostra tendenza ad adattarci ci induce a mutare, ad equilibrarci con l’ambiente stesso o a manipolarlo se fiacco; ma allora se ciò può mutare un ché come l’essenza, fino addirittura a spostarla, com’è che siamo tutti ancora uomini? L’essenza in primo luogo è mutabile per natura, o meglio è prona ad esistere, e questo suo atteggiamento da adito più o meno a tutti, per ciò la sua forgia può essere anche tiepida. Ecco che quindi la tecnologia offre nuove essenze, ma questo è da sempre, ciò che non torna è la posizione dell’essenza: nell’immaginazione artistica dei capi del progetto Thatpoppy essa è dislocata in superficie, e questo avvenimento non può essere macchiato dalla negligenza, perciò deve essere collegato e causato dalla tecnologia stessa. Non ci è dato di sapere il motivo causale, tutto ciò che riusciamo a scorgere sono le reazioni. Questa è l’introduzione all’analisi del progetto artistico avveniristico (ebbene si) più importante degli ultimi 5 anni.

Il virgulto arbusto della vita

Il virgulto arbusto della vita germoglia da un unico seme, eppure, la sua crescita apporta un numero immenso di rami pari solo ai suoi rapporti. Queste numerose fronde non per caso rispecchiano il numero di relazioni sperimentate dal tronco. Esse infatti rappresentano le molteplici esistenze del tronco rapportatesi ad uno ulteriore. La vita sgorga in questi rami e, a differenza del tronco, conserva una longevità eccelsa basata sulle memorie altrui. Tutti viviamo in noi e nelle nostre relazioni, e continuiamo a vivere nelle memorie; ovvio è che la morte del tronco pone fine anche alle reminiscenze di quest’ultimo, ma ai rami spetta altro fato. Quando una relazione non è più in grado di mutare, allora ciò che resta è nominabile ricordo; inutile dire che la morte assidera l’andamento di un rapporto, arrestandolo per sempre a inclita rievocazione. Il ricordo ci accoglie in morte o in distanza, esso figura la nostra vita in funzione degli altri e ci attesta quella generosità, arbitraria all’etica, che inevitabilmente elargiamo. Tuttavia, il decesso del tronco in qualche modo sbigottisce anche il semplice ramo: il dualismo originario del ramo, formato dall’esperienza del tronco destro e del tronco sinistro, si riduce a monismo contemplante l’esperienza del solo ramo superstite. In qualche modo la morte distorce sempre la realtà privandola di una voce egoistica.

Incontro

<<Alzalo!>> Esordisce così, il risentito passante. <<La terra accoglie i piedi, gli occhi non sono affar suo,>> continua, stavolta pacatamente. <<L’orizzonte ingelosisce.>> Conclude lo sconosciuto. <<Neanche i vostri occhi sono affar mio.>> Ribatte il giovine con voce tremolante e sussurrata.<<Indecente, rubi tempo a non finire, dovresti morire.>> L’ultima parola del passante infonde sensazioni familiari al giovane. <<Cos’è? Una minaccia?>> Commenta incautamente il ragazzo. <<Vivo come mi pare, se ti senti offeso è un problema tuo.>> Il cresciuto passante si avvicina al ragazzo indispettito, e dice: <<Vivi? sogni di vivere, eppure sei troppo pigro anche per alzare il collo.>> Una folata algida impietrisce il garzone. <<Sei troppo impegnato nei lamenti, nella negazione, eppure, non adempi neanche all’assoluta negazione>> Conclude in questo modo il passante, e poi si volta e prosegue verso la sua meta, convinto di aver smosso qualche rotella nel ragazzo.

Dopo questo bislacco, quanto tetro, incontro, il giovane inizia a riflettere sulle parole del passante. La passeggiata verso casa produce tante riflessioni:<<Possibile che abbia capito la situazione in cui sto dal mio andamento? Bhe… non è che ci volesse un genio, faccio pietà anche ai sassi. Anzi no, la pietà mi avrebbe portato attenzioni, io semplicemente, non riecheggio. Eppure, quel tipo, si lui….. mi ha capito. Forse dovrei seguire il suo consiglio. Negazione assoluta eh? mhmmm….. devo morire, così mi giustificherei almeno. Tanto sono stanco io stesso della mia vita e poi non è stato certo lui ad introdurmi il tarlo. Voglio percepire meglio questa sensazione, andrò sul ponte qui vicino.>> Le autoreferenziali e misoneiste riflessioni del ragazzo lo portarono ad accostarsi alla ringhiera del ponte vicino. Nessun pensiero contrario sembrava realizzarsi in lui, finché non apparve: <<Il tuo è un torpore assai disonesto, neanche hai provato a leggere tra le righe vero?>> Una sereno verso si fa presente ai timpani del giovane, il quale, irrigidito, si volta frettolosamente.<<Ancora tu! Biasimami ancora dai, ma stavolta tu mi hai indicato questa via.>>Il giovane si rivolge così adirato verso l’impiccioso passante. <<Io ho indicato la via che battevi già da tempo, ragazzo. La vita ti fa dono di una sola cosa, ancora tu sei orbo?>> Ribatte rabbonito, il passante.<<Basta con queste frasi enigmatiche, parla chiaro!>> Commenta il furente ragazzino.<<È così, sei ancora cieco!>> In questo modo, il passante, si appresta a introdurre un lungo discorso: <<La vita, ragazzo, questo è il dono. Tu hai la possibilità di vivere, di far vivere e di mutare volontariamente ciò che ti è intorno. Questo ti espone inevitabilmente. Ricorda chiunque rimane in movimento è una calamita d’attenzioni. E tu come puoi essere fermo e pretendere attenzioni. Perfino le tue riflessioni erano ferme alla mia presuntuosa frase. Sei sfortunato è vero, ma intendi davvero smettere di essere? Puoi farlo certo, se ti sei arreso. Il problema è che tu speri, guardi, parli. Non ti sei ancora arreso, ma neanche mosso. Provaci, muoviti e se non dovessi essere soddisfatto, allora, cambia ballo. Realizza ciò che speri, e poi trova qualcos’altro in cui sperare. Non ho cambiato nulla con il mio discorso, non ho migliorato la tua condizione effettiva, e questo perché devi muoverti da te. Tu in primo luogo devi iniziare a dare attenzioni a te stesso, se neanche tu sai di vivere come potrebbero gli altri?>> Il discorso motivazionale sembrava aver colpito il bersaglio, così il passante scomparve nell’ombra della notte, senza ricevere ulteriori risposte.

Il ragazzo, ora solingo, sembra aver acquistato nuova fiducia in se stesso. L’indomani, e tutti i giorni avvenire rispetterà il mantra dell’uomo misterioso, ma si paleserà a lui solo l’iniquità della vita. Non si ucciderà, continuerà a vivere nella speranza, ormai è stato mutato da un altro vivente ed è la prova di quanto quell’uomo si sbagliasse. La morte farebbe dimenticare a chiunque quel nocivo insegnamento. Ma il ragazzo, in verità, non ha deambulato affatto per l’impervia via descritta dal passante.